lunedì 1 luglio 2013

Kevin Carter

In pausa pranzo, pigramente, come tanti impiegati che lavorano qui attorno, passeggio in una nota libreria di un centro commerciale.
Svogliatamente passeggio tra i libri di management e quelli di religione, tra i quali fanno bella mostra di sè i libri antikasta.
Così li chiamano.
Mi guardo attorno con l'aria di un turista annoiato, come in cerca di qualcosa che mi svegli dal torpore post-prandiale. Poi il mio occhio cade su un banchetto sui quali sono esposti vari libri di fotografie.
Foto di modelle, foto di auto, foto di paesaggi, foto dell'India, foto dell'Africa... Le copertine lucide e colorate non hanno un grande effetto sulla mia attenzione, ma un libro in particolare, di forma e colore che non ricordo, è lì che mi chiama.
Si intitola "Storia della fotografia". Probabilmente c'era anche un sottotitolo, ma non me lo ricordo.
E non mi ricordo nemmeno la foto di copertina.

Mi attrae perché conosco molto bene il mio limite: io sono completamente ignorante di storia della fotografia.
E se mi dite un nome di un fotografo famoso che non siano Bresson o Gardin sulla mia faccia vedrete solo un'espressione vuota e inutile. (Toscani non lo annovero tra i fotografi per gusti personali....).

Lo prendo, lo sfoglio e, come un ragazzino che non sa leggere, guardo le immagini.
Che scorrono velocemente nel tempo... Dal 1890 passo velocemente agli anni '70.... e lì mi fermo su una foto di Mappelthorpe (Mattelthorpe! Come ho fatto a dimenticarlo!), un autoritratto di lui voltato di schiena, seminudo, con una frusta infilata nel didietro.Una icona della fotografia moderna.

Passo avanti, un po' disgustato.

So che prima o poi mi tocca la fotografia di reportage. E mi fa paura.
Perché la fotografia di reportage parla dell'uomo e del suo dramma, dell'uomo e della realtà.

Eccola lì.

Un bimbo africano, minuscolo, magrissimo, coricato in terra. Da solo.
E sullo sfondo un avvoltoio che aspetta.

Non riesco ad andare avanti.
Non posso andare avanti.
Guardo quel corpicino sulla terra, come se stesse tentando di alzarsi, e quell'avvoltoio in fondo che aspetta pazientemente.

Mi si chiude la gola, e chiudo il libro.

Esco senza parlare, con il mio collega che mi racconta delle scorpacciate fatte in chissà quale ristorante di chissà quale città con chissà quale cliente.

Cosa ne sarà stato di quel bambino? Chi ha scattato la foto si è limitato a riprendere la scena?

Questa domanda se la sono fatti in milioni di persone, tant'è che l'autore della fotografia, Kevin Carter, fu accusato di omissione di soccorso. Pur avendo vinto, nel 1994, il Pulitzer proprio grazie a quella foto

La realtà è che Kevin era lì di passaggio e il bimbo si trovava lì per puro caso, "parcheggiato" temporaneamente da sua madre che era andata a prendere cibo e acqua all'aereo appena atterrato, e sul quale volava anche Kevin.

Il bimbo si salvò.

Kevin no.

Kevin Carter si è suicidato il 27 Luglio 1994, lasciando queste parole:

"I am depressed ... without phone ... money for rent ... money for child support ... money for debts ... money!!! ... I am haunted by the vivid memories of killings and corpses and anger and pain ... of starving or wounded children, of trigger-happy madmen, often police, of killer executioners ... I have gone to join Ken if I am that lucky"






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